Online Disinhibition Effect
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  • Immagine del redattoreFrancesco Loffredo

Online Disinhibition Effect

Aggiornamento: 28 dic 2020

Dopo aver analizzato la tematica delle relazioni nei videogiochi da una prospettiva che possiamo definire “esterna”, ritengo che sia molto interessante ed utile provare a focalizzarsi anche su ciò che accade nella mente della singola persona nel momento in cui si avvicina al mondo virtuale e, di conseguenza, ad altri players. Abbiamo visto come le relazioni nel cyberspazio possano essere considerate, per molte ragioni, simili a quelle reali, ma approfondendo ulteriormente potremmo scoprire anche importanti differenze, fondamentali per provare a rispondere alla seguente domanda:


Quali possono essere i fattori da tenere in considerazione per relazionarsi con altri videogiocatori in modo sicuro?


Per affrontare questa complessa questione, è necessario scomodare John Suler, professore di psicologia alla Rider University ed esperto di dinamiche interpersonali online. In particolare, in un articolo del 2004, lo studioso parla di Online Disinhibition Effect (ODE), che consiste nella tendenza delle persone a comportarsi in modo più disinibito nel cyberspazio, rispetto a quanto farebbero in una relazione faccia a faccia.

Di per sé, non si tratta di qualcosa di completamente negativo, anzi, questo effetto potrebbe rendere più semplice - per persone con un temperamento introverso - stringere nuove relazioni, o anche solo scambiare opinioni con altri videogiocatori. Tuttavia, Lo scienziato descrive alcune tipologie di disinibizione potenzialmente pericolose, e cerca di analizzare i fattori alla base dell’ODE:

Benign Disinhibition: le persone possono condividere informazioni personali, come segreti, emozioni, paure, desideri o mettere in atto gesti di gentilezza o generosità esagerati.

Toxic Disinhibition: il lato opposto di quello che possiamo immaginare come un continuum è rappresentato da comportamenti violenti, aggressivi, minacciosi che difficilmente sarebbero attuati nella vita di tutti i giorni. Questo tipo di disinibizione ci aiuta a comprendere il funzionamento di alcune community di giocatori online, in cui è “normale” insultare pesantemente gli avversari o prendere di mira compagni di squadra meno esperti, considerati responsabili del cattivo andamento di una partita.

Ad esempio, da giocatore di League of Legends di vecchia data, capitava molto spesso di ricevere via chat insulti come "retard" o "noob" (che deriva da newbie ovvero "principiante, novellino) - insulti che lasciavano il tempo che trovavano, ma che potevano essere anche "reportati" (da report ovvero "segnalazione" tramite l'apposita funzione del gioco) a fine partita, sottolineando l'atteggiamento sgradevole dei giocatori. Questo linguaggio è divenuto nel tempo la "normalità", pur tuttavia non essendo consono al mondo di gioco e al clima di rispetto che gli sviluppatori cercano da sempre di creare. Per questo motivo i giocatori più volgari sono punibili con l'allontanamento dal gioco stesso, ovvero il ban (che poteva durare da alcune ore fino a mesi in base alla gravità e al numero di report ricevuti).


Ma cosa causa tale disinibizione? Quali sono le caratteristiche del mondo virtuale che riescono ad indebolire le barriere psicologiche, che normalmente ci impediscono di mostrare i nostri sentimenti e bisogni più profondi?

Ci sono diversi fattori, che, interagendo tra loro, contribuiscono a rendere l’effetto più complesso e potente; vediamoli insieme uno ad uno:

> You don’t know me (dissociative anonimity): nella rete, in pochi sono in grado di svelare l’identità degli utenti con cui interagiscono, e ciò li costringe ad accontentarsi delle informazioni che vengono condivise spontaneamente; quindi le persone, convinte che le loro azioni online resteranno separate dalla loro vera identità, si sentono meno vulnerabili e libere di aprirsi (e talvolta mentire).

> You can’t see me (invisibility): in molti ambienti virtuali gli utenti non possono vedersi, ma solo scambiare messaggi (si pensi, ad esempio, alle chat dei giochi online); questa situazione di “invisibilità” toglie alle persone molte di quelle inibizioni che, normalmente, derivano dalla vista dei classici segnali non verbali di disapprovazione (ad es. linguaggio del corpo, espressioni facciali, sguardi, ecc.).

> See you later (asynchronicity): nei sistemi di messaggistica (ad es. WhatsApp, Telegram, ecc.) ed e-mail la comunicazione è asincrona, ovvero possono passare minuti, ore, giorni, persino mesi prima di ricevere una risposta; questo ritardo nei feedback permette di far fluire i pensieri in modo più libero dal momento che non bisogna confrontarsi con reazioni immediate. Altro aspetto della questione è rappresentato dalla possibilità di lasciare la comunicazione in qualsiasi momento, solo con un click (in gergo si parla di running away).

> It’s all in my head (solipsistic introjection): l‘invisibilità e la comunicazione solo tramite testo si combinano creando un effetto interessante sulle persone, fino a farle sentire “come se la loro mente fosse fusa con quella dell‘altro”; così, i messaggi scritti sono vissuti come voci nella propria mente, quasi l‘interlocutore fosse stato introiettato, oppure si tende ad immaginare la possibile voce dell‘interlocutore come quella di qualche amico o familiare, a seconda dei ricordi che emergono durante la conversazione. Così, in modo non del tutto consapevole, si arriva pensare che la conversazione avvenga nella propria testa, luogo in cui chiunque può dire tutto quello che non direbbe mai nella realtà.

> It’s just a game (dissociative imagination): l‘effetto precedente e la possibilità di evadere in ogni momento dal cyberspazio contribuiscono a creare una sorta di “mondo fantastico”, un “gioco con tanto di regole separate da quelle della vita di tutti i giorni” (Finch, 2003); perché sentirsi responsabili di qualcosa che accade in un gioco che non ha nulla di reale?

> We’re equals (minimizing authority): normalmente, non si dice tutto quello che si pensa quando ci si trova di fronte una figura che rappresenta l‘autorità; tuttavia, molte delle comunicazioni che avvengono in rete sono strutturate in modo che tutti i partecipanti abbiano la stessa libertà di parola (peer relationship) e questo porta le persone ad esprimersi in modo molto libero. Nella realtà la posizione sociale determina un‘importante influenza sull‘altro; in rete, invece, per fare presa sugli altri, bisogna spesso affidarsi alle proprie abilità di comunicazione (e scrittura), cultura ed idee.

Quest’ultimo meccanismo si collega con le tematiche delle gilde e degli avatar, citate nel precedente articolo: da un lato, l’aspetto conferito ai propri personaggi virtuali (più o meno personalizzabile a seconda del gioco) aiuta a rafforzare questo effetto. Tuttavia, come già accennato in precedenza, anche all’interno delle gilde esistono delle gerarchie: il leader o gli ufficiali potrebbero scegliere di restare “anonimi” o, al contrario, di sfoggiare equipaggiamenti particolari come armi leggendarie, armature o altri oggetti rari e difficili da ottenere, in modo da distinguersi dalla massa e mostrare a tutti il loro “grado”.

Non è forse qualcosa che in molti ambienti, seppur con modalità differenti, avviene anche nel mondo reale?


L’obiettivo della condivisione di questo modello non è quello di trasmettere l’idea che le interazioni online siano pericolose; al contrario, la miglior difesa contro i potenziali rischi derivanti da questi fattori sta proprio nella consapevolezza della loro esistenza: nella maggior parte dei casi, ricordarsi che al di là dello schermo o dietro il viso di un avatar ci sono delle persone come noi, è sufficiente per relazionarsi con il normale livello di cautela che farà si che l’interazione con altri players sia un’esperienza piacevole e nello stesso tempo sicura.

 

Bibliografia:


- Finch E. (2003), “What a tangled web we weave: identity theft and the Internet” In Y. Jewkes (ed.), Dot.cons: Crime, Deviance and identity on the Internet. Cullompton, England: Willan, pp. 86-104.

- Suler J. (2004), “The Online Dishinibition Effect”, CyberPsychology & Behavior, 7(3), pp. 321-326.

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