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Immagine del redattoreAlex De Nittis

Una violenza mediata

Aggiornamento: 5 ott 2020

Non è un fatto strano: spesso gli articoli di giornale riescono a smuovere sentimenti. Certe volte sono di soddisfazione, altre volte di sorpresa, per non parlare del disgusto o dello sconforto. Poche volte invece riescono a suscitare tutti questi sentimenti insieme.

Si dà il caso che questo sia successo dentro di me non più di due anni fa, analizzando per la prima volta in maniera critica cosa stava succedendo tra le righe di un noto giornale italiano.

Il titolo recitava così.

Ci sono quelli che perdono il senso della realtà, altri rovinano il matrimonio. E qualcuno si trasforma in killer. I maniaci del videogioco vanno curati in clinica.L’articolo prendeva in prestito quasi un'intera pagina del quotidiano.

Quando violenza e videogiochi si incontrano sui giornali, mi piacerebbe che si aprisse un dialogo e un incontro tra le menti. Non accade sempre, purtroppo, perché il terreno di discussione non è ancora fertile, mi dico, e perché il pensiero è ancora dominato dal pregiudizio sulla poca discutibilità dei videogiochi, se non come forma di perdita di tempo o di distrazione dai veri doveri della vita.

Ciò che leggo però è pregno di superficialità verso un mondo che ai lettori, e ancora più agli scrittori, è ancora poco chiaro se non del tutto incomprensibile. E in questo modo facciamo avanzare l’ignoranza, nascondendo quello che più di ogni altra cosa ogni videogioco dovrebbe fare: divertire.


Scrivevo in un articolo precedente proprio di quanto sia difficile per un game designer creare un’esperienza di valore, che ti tiene incollato allo schermo per quanto sia avvincente; non per soddisfare chissà quale pulsione nascosta - citando l’articolo: “dimostrando di non avere più niente di virtuale. Il videogioco genera tensione, il giocatore la scambia per eccitazione. Siamo talmente annoiati che il videogame diventa una specie di dinamo che carica di aggressività chi ci gioca.”


Andiamoci piano. Questo è il campo per i professionisti, gli psicologi e i ricercatori, non per i giornalisti per creare allarmismo o confusione.


Cerchiamo di confutare alcuni dei preconcetti che senza volerlo, fanno crescere le radici della disinformazione.

n.1 - I videogiochi violenti causano violenza.


Questa è la frase che leggo. È anche un pregiudizio che mi circonda parlando coi genitori alle fiere. Peccato che nel caso in questione - il sopracitato articolo italiano - si parlasse di Madden NFL, il videogioco sportivo del football americano sviluppato per EA Sports, non di Grand Theft Auto, il videogioco violento per antonomasia. Questo ci spinge a chiederci cosa sia la violenza e quale contenuto possa identificare un videogioco come violento. Andrea ha già parlato di questo nel suo articolo in questo episodio.


Phil Spencer, capo di Xbox e vice-presidente della sezione Gaming di Microsoft scrisse nel suo blog che i “videogiochi devono promuovere e difendere la sicurezza di tutti”, riassumendo il concetto in tre capisaldi che l’azienda di Redmond persegue e difende:


  • Ci impegniamo a essere vigili, propositivi e rapidi.

  • Ci impegniamo a darti gli strumenti per salvaguardare la tua esperienza di gioco nel modo desiderato.

  • Ci impegniamo a lavorare nel settore dei giochi sulle misure di sicurezza.

Un impegno imprescindibile che gli sviluppatori di tutto il mondo conoscono e che, come vedremo poi, devono saper gestire quando i media iniziano a (s)parlarne.


Ad esempio, poco si discute del fatto che il contenuto di un videogioco non è correlato alla violenza che si crea durante le partite online - parte proprio di quell’esperienza che, come scrive Phil Spencer, è da salvaguardare.


La sana competitività è un’altra cosa!


Tossicità delle comunità online, cyberbullismo nelle chat durante le partite multiplayer, volgarità gratuite e adescamenti, soprattutto nei confronti di giocatori più piccoli, sono solo alcune delle situazioni che Microsoft, Blizzard e altre case cercano con i propri strumenti di limitare e filtrare: purtroppo, la violenza si cela anche nelle comunità e non solo nei contenuti presenti nei giochi.


n.2 - Trump (non) ha tempo per giocare ai videogiochi.


Però ha avuto tempo per parlarne, glielo concedo. Il presidente degli Stati Uniti ha conversato agli inizi del 2018 con le più grandi case di produzione e pubblicazione di videogiochi tra cui la Rockstar Games, publisher di GTA. Il presidente fu ammonito di dover concentrarsi su altri problemi del paese, tra cui la possibilità per tutti di comprare un’arma. L’IGDA (l’Associazione Internazionale di Sviluppatori di Videogiochi) usò twitter per comunicare la sua posizione:

"Rendere i videogiochi o qualsiasi altra forma di media il capro espiatorio per continuare a rifiutare anche la sola idea di prendere in considerazione le ragionevoli, razionali restrizioni sulle armi da fuoco che l'America vuole e merita, non inganna nessuno."

Nell’estate del 2019 l’America ha subìto nuovamente diverse sparatorie di massa, provocando morti e feriti. Ed è stato proprio questo che ha spinto Trump a puntare il dito nuovamente verso i videogiochi:

“Dobbiamo fermare la glorificazione della violenza nella nostra società. Questo include

i raccapriccianti e macabri videogiochi ormai divenuti comuni. [...] La salute mentale e l’odio premono il grilletto, non la pistola.”

Troppo facile. Eppure voglio credere che anche Trump sia in piccola (se non piccolissima) parte vittima del pregiudizio, figlio proprio anche di quel tipo di articoli che vengono scritti e riproposti costantemente.

Reggie Fils-Aimé, ora ex presidente di Nintendo of America, rispose a Trump con il celebre tweetI fatti sono fatti.” mostrando il grafico di una ricerca che incrociava i dati sugli acquisti di videogiochi e le morti per l’uso di un’arma da fuoco in diversi paesi.

I dati parlano da soli.

n.3 - Gli psicologi non si interessano ai videogiochi violenti.


L’articolo di aggiornamento Resolution on Violent Video Games dovrebbe bastare come prova.

Risalente allo scorso Febbraio 2020, l’APA (Associazione degli Psicologi Americana) ha fatto presente in questo articolo che, allo stadio attuale di ricerca, nulla di scientificamente rilevante possa collegare comportamenti violenti all’uso di videogiochi. Una posizione importante è stata presa, nell’ottica di continuare quella che è ormai da più di 20 anni la ricerca sugli effetti dei mezzi di intrattenimento sulla psicologia umana.

Francesco sottolinea nel suo articolo quanto mai prima di oggi, grazie all’interesse crescente della psicologia per il mondo della violenza prima e dei videogiochi poi, si stia costantemente promuovendo l’uso consapevole dell’intrattenimento interattivo.

Al fine di garantire una miglior chiarezza al momento dell’acquisto, la stessa APA

“promuove e incoraggia fortemente l’ESRB (Il corrispettivo americano delle nostre linee guida europee PEGI) a chiarire specificatamente i livelli e le caratteristiche della violenza nei videogiochi in aggiunta all’attuale forma di classificazione.”

PAGE persegue proprio questo obiettivo. Vorrei che i nostri lettori potessero essere consapevoli di ciò che leggono sui videogiochi, leggerci al fianco di quelle testate giornalistiche e che, prima di gridare contro lo schermo, potessero sedersi e vedere cosa sta succedendo anche dietro di esso.

Che cos’è per voi la violenza nei videogiochi?

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