The game of the brain
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  • Immagine del redattoreAlex De Nittis

The game of the brain

Aggiornamento: 5 ott 2020

Si potrebbe dire che tutto sia cominciato da World of Warcraft (WoW).


Questo classico Gioco di Ruolo Multiplayer Online di Massa (o MMORPG) ha accolto milioni di giocatori dentro le sue foreste ricche di avventure fantasy, sin dal 2004. I problemi sono sorti quando altrettante centinaia di giocatori, ogni anno, non riuscivano più a uscirne, tanto da arrivare a perdere il lavoro o gli anni di studio. Nei sedici anni successivi, il numero di giocatori si è ridotto, il gioco si è arricchito di nuove espansioni e sono aumentati gli specialisti in ambito clinico, psicoterapeutico e di comunità che hanno messo in campo le proprie competenze, al fine di combattere quella che era diventata una vera e propria “World of Warcraft Addiction. Tuttavia, è anche vero che l’offerta di nuovi giochi online è oggi verosimilmente decuplicata e WoW è diventato leggenda, nonché uno dei tanti giochi a cui si può giocare online con gli amici e che ancora gode di quasi cinque milioni di giocatori attivi ogni mese (1).


Ma cos'è successo nel cervello di quei giocatori? Com'è potuto succedere che un gioco li abbia risucchiati a tal punto?


Almeno un dito lo dobbiamo puntare verso ciò che i neuroscienziati chiamano circuito della ricompensa.

Si tratta di un sistema complesso, formato da diverse aree cerebrali corticali e subcorticali tra cui la corteccia prefrontale (CPF), il nucleo accumbens e l’area tegmentale ventrale (2).



In particolare, la CPF modula la risposta inibitoria ad uno stimolo incentivante, il secondo le sensazioni positive di gradimento e quelle negative di repulsione, mentre l’ultima genera la gratificazione dovuta ad una ricompensa.


La regolazione della gratificazione e della motivazione a compiere un’azione avviene anche grazie al neuro-ormone della dopamina, presente naturalmente nel cervello e coinvolto, tra le altre cose, nel movimento.


Non è un caso che la parola motivo derivi dal latino motus, participio passato di movere ossia "muovere".


In sintesi, potremmo dire che quando siamo stimolati da un bisogno fisiologico (come la sete) o psicologico (come il divertimento) a compiere un’azione gratificante, tanto più viene messa in circolo dopamina e, dunque, tanto più il circuito della ricompensa viene attivato. In altre parole, ci spinge a compiere un’azione quando abbiamo un motivo per farlo, oppure un bisogno fisiologico o psicologico. Ma questa macchina, così come si accende ogni qualvolta sia richiesto, così è in grado di spegnersi autonomamente per non sovraccaricarsi. Pensate a quando abbiamo appetito: siamo stimolati a cercare del cibo, viviamo nell’attesa mentre cuciniamo o mentre aspettiamo che il food delivery citofoni e, una volta mangiato, la fame si spegne. Il processo di “spegnimento” è ciò che accade quando il circuito della ricompensa regola l’interruzione, ovvero quando altri nuclei cerebrali avvertono il raggiungimento di un elevato tasso dopaminergico e la dopamina viene così “smantellata” in altre sostanze.

Cosa accade, quindi, quando rimaniamo incollati allo schermo? Cosa rende il videogioco così simile ad una droga?

Usare la parola dipendenza quando siamo ossessionati da qualcosa è come usare la parola depressione quando siamo tristi. Non è così semplice!

La dopamina, come detto, è naturalmente presente e generata dal nostro cervello e non è l’unica “colpevole” dei nostri gradimenti. Per questo motivo, bisogna comprendere che quando facciamo sesso, pratichiamo uno sport o siamo impegnati in una partita al nostro MMORPG preferito, stiamo generando dopamina, o meglio dire, neurotrasmettendo. Quello che accade quando assumiamo una droga è molto simile, ma ciò che viene alterato è il risultato finale. La neurotrasmissione viene regolata meccanicamente dalle sinapsi che attivano e disattivano l’ingresso delle sostanze in modo equilibrato. La droga agisce proprio sulla regolazione di questi equilibri, bloccando il controllo inibitorio della CPF e permettendo inoltre un anomalo ristagno di dopamina che non viene più smantellata, bensì viene accumulata causando il fenomeno della tolleranza: dopo somministrazioni ripetute di una sostanza, si produce un effetto minore di quello ottenuto alla prima somministrazione, oppure diventa necessario utilizzare dosi maggiori per ottenere gli effetti iniziali.


Quello che distingue i videogiochi dalle droghe è la quantità di dopamina coinvolta. La risposta dopaminergica può arrivare ad essere decine di volte maggiore nelle droghe rispetto all'uso dei videogiochi: teniamolo a mente.


Ciò che possiamo affermare essere patologico riguardo il “videogiocare”, dunque, è il suo uso prolungato come alternativa ad altre attività personali e soprattutto relazionali, incluse quelle quotidiane o lavorative. Quello che ci fa rimanere attaccati non è la dipendenza, ma ciò che identifichiamo come engagement, un fenomeno che ogni game designer di successo punta a generare con il suo gioco: l’engagement, infatti, non è altro che il coinvolgimento costante del pubblico consumatore rispetto a un determinato contenuto, un vero e proprio collante che ci tiene attaccati all'esperienza di gioco, alimentando continuamente il nostro desiderio di giocare. D’altro canto, ogni scrittore e regista vorrebbe che il pubblico finisse di leggere o di guardare la propria opera fino alla fine. Con i videogiochi non è diverso! In realtà, incanalare la nostra attenzione e le nostre emozioni dentro al videogioco è una sfida tutt'altro che facile e non è una tecnica magica, pronta all'uso: ogni game design ha una struttura propria e definita per donare al giocatore una ricca dose di divertimento. Ad esempio, un gioco di azione ci coinvolge facendoci rivestire i panni di un agile avventuriero, oppure di un abile spadaccino o di un formidabile sparatore. Ma continuare ad essere agili, sferzare la lama o sparare a più non posso, rischia di affaticare il giocatore, provocando un deperimento della risposta dopaminergica. Un buon game design, quindi, sostiene il ritmo del giocatore senza obbligarlo a rimanere costantemente attivato, ma alternando fasi di rilassamento a fasi concitate, o ancora, fasi di esplorazione a fasi di narrazione. In questo modo, ogni giocatore potrà soddisfare la propria sete di azione ed essere pronto alla prossima grandiosa battaglia, giusto in tempo per il recupero della dopamina.



A quanto detto si collegano altre strategie, ad esempio, solo per citarne alcune, rinnovare il gameplay, accrescere il proprio livello per sentirsi ancora più forti, proseguire la storia per stimolare la curiosità: non sapere cosa si cela dietro l’angolo o sentire di essere vicini ad una scoperta incentiva il giocatore a continuare l’esplorazione. Ancora meglio, se siamo in compagnia dei nostri alleati online a distanza o dei nostri amici e parenti sul divano di casa.

 

Note:

 

Fonti:


- Neuroscienze. Esplorando il cervello di Mark F. Bear, Barry W. Connors, Michael A. Paradiso, terza edizione, Masson (2007)

- Neuroscienze e dipendenze/La neurotrasmissione

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